Ricorderò
per sempre l’estate del 1982, fu la più bella tra quelle vissute da bambino. A
sette anni compiuti da qualche mese cominciavo a rendermi conto della realtà
della vita e tanti flashback di quelle calde giornate estive sono stampate a
caratteri forti nella mia memoria.
Eravamo
diventati da poco campioni del Mondo in Spagna e Paolo Rossi era senza ombra di
dubbio la persona più importante della mia esistenza. Ad alimentare queste mia
ultima certezza ci pensò mio zio Massimo che un giorno tornò a casa con una
maglia della nazionale Italiana prodotta dalla “Le Coq Sportif” col numero 20, comprata in una gita sul lago di Garda. Inutile sottolineare come quella maglia
divenne per me una sorta di seconda pelle, volli indossare sempre e solo
quella, quasi a sottolineare il mio legame indissolubile con quel ragazzo di
Prato che aveva tramutato le tristezze in gioia popolare durante il mese di
Luglio del 1982.
Vivevo così
le mie giornate: ciabatte, bermuda, bocce e maglia di Pablito, libero di
scorrazzare sui campi della bocciofila Esperia di Crema. L’unica intrusione
esterna era quella di mia nonna Bruna che dalla finestra sopra i campi da
gioco, dove i miei nonni abitavano, si affacciava ogni tanto per controllare
che le mie bocciate continuassero in tranquillità. Mi piaceva giocare a bocce,
mi piaceva l’evoluzione del gioco e che ogni “manata” fosse diversa dalla
precedente, fatto che suscitava lo sviluppo di notevole fantasia nel vedere le
possibili giocate e di conseguenza la necessità di grande concentrazione. Mio zio
Massimo era un buon giocatore di bocce, mio padre Franco meno, ma la passione
per le bocce la mise a disposizione come dirigente della società bocciofila.
Uno il braccio, l’altro la mente.
La nazionale
azzurra del mondiale spagnolo segnò personalmente uno spartiacque definitivo
fra i giochi di bambino, costruzioni lego e macchinine, e la futura passione per
il calcio assorbita quasi per intero dalla squadra di famiglia, una scelta
pressoché obbligata da nonno, zio e papà. La Juventus.
Mio nonno
Nilo, nome greco che evocava uno dei più lunghi corsi d’acqua al mondo, diventò
bianconero ammaliato dalla classe elegante e irriverente di Omar Sivori, e
dalla potenza di un gigante gallese di nome John Charles. I suoi due figli non
poterono che diventare bianconeri, stessa sorte che toccò a me e a mio cugino
Mauro che vide i natali proprio in quel magico 1982.
La nostra
era una famiglia di strada . Mio Nonno iniziò la professione di straccivendolo in
giovane età, era uno “strasser” come si dice a Crema. Una scelta dettata dalla
fame e dal bisogno di un futuro migliore nel difficile immediato dopo guerra. Vissero
nella popolare Via Venezia a Crema, un’accozzaglia di abitazioni che si
affacciavano su un grigio cortile centrale, “la corte della Venezia”. Mio padre
nacque nel ’47, mio zio nel ’51. Con gli anni poi mio nonno avrebbe intrapreso
l’attività di antiquario, con passione e competenza divenne uno dei più
apprezzati della zona cremasca. Papà e zio Massimo si buttarono invece sul
mestiere del “rutamat” , il commercio di rottami metallici, lavoro spacca schiena
durante la settimana e grande palpitazioni per i colori bianconeri la domenica.
Il quadro
generale dopo quel famoso 11 Luglio, giorno in cui battemmo la Germania Ovest
per 3-1 nella finale del mondiale, era di rinascita. L’ormai agonizzante
terrorismo rosso continuava a mietere vittime mente la mafia siciliana alzò il
tiro in affari sempre più grandi sostituendo la vecchia doppietta a canne mozze
con l’uso del mitra e passando dalla guida del “boss dei due mondi” Tommaso
Buscetta a “la belva” Salvatore Riina. La vicenda P2 e l’impiccagione del
banchiere Roberto Calvi sotto un ponte di Londra furono fatti gravi, pesanti, ma
tutti i dubbi e le angosce sembravano dissolversi nell’immaginario collettivo per
la gioia di un titolo mondiale alla vigilia insperato.
Se Paolo
Rossi era in quel momento il padrone della nazione, il suo fedele socio in
popolarità rispondeva al nome di Enzo Bearzot. A lui, Pablito doveva moltissimo,
praticamente tutto. Fu il “Vecio” a convocare Rossi per il mondiale spagnolo,
sfidando un periodo di inattività dell’attaccante dovuto alla squalifica per il
calcio scommesse e soprattutto opponendosi ad una spigolosa stampa italiana che
spingeva per avere Roberto Pruzzo, goleador del campionato di serie A, fra i
convocati di Spagna. La scommessa e la tenacia di Bearzot alla fine premiarono
Rossi che dopo una prima parte di torneo mondiale sottotono disputata a Vigo,
esplose clamorosamente e si assicurò oltre al titolo mondiale di squadra,
quello di capocannoniere del torneo con 6 reti e in seguito il Pallone d’Oro
per l’anno 1982.
Della
spedizione spagnola figurarono ben sei giocatori juventini. Il capitano Zoff,
Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli e Rossi. Il termine “blocco Juve” si manifestava in
tutta la sua magnificenza. A quella spedizione mancava anche la chioma grigia
di Roberto Bettega, altro sicuro titolare del mundial spagnolo, ma fermato
pochi mesi prima da un grave infortunio subito in Coppa dei Campioni durante la
partita di ritorno contro l’Anderlecht. Una squadra formidabile quella
juventina a cui si aggiunsero in sede di calciomercato due assoluti
protagonisti del mondiale appena terminato. Il francese Platini e il polacco Boniek,
semifinalisti con le loro rappresentative, aggiunsero quel tasso tecnico e di
fiducia che proiettarono la compagine bianconera ad avere ben chiaro il futuro
obiettivo calcistico: portare a Torino la Coppa dei Campioni.
La coppa
dalle grandi orecchie stava diventando una sgradevole ossessione per i colori
bianconeri tanto da mettere in secondo piano il primato in campionato. Dopo due
scudetti consecutivi, il secondo dei quali appuntò la seconda stella sul petto
della Juventus, l’obiettivo europeo era una priorità assoluta. La famiglia
Agnelli voleva la Coppa dei Campioni per dare lustro alla propria dinastia
calcistica fuori dai confini italiani. Ecco dunque che l’avvocato cercò di
forgiare la sua creatura calcistica con due suoi pallini personali: Platini e
Boniek. Per far spazio al francese fu sacrificato il talento educato
dell’irlandese Liam Brady, giocatore geometrico, dal dribbling incisivo e dalla
professionalità indiscussa. Il rigore realizzato a Catanzaro con esultanza
rabbiosa, rete che di fatto regalò la seconda stella alla zebra, fu un epilogo
che molti tifosi juventini porteranno per sempre nel cuore. Il rispetto per quel ragazzo dolce e composto,
che già sapeva da alcuni giorni di dover lasciare Torino, rimane tutt’ora
immutato.
L’avvocato Agnelli,
si innamorò follemente di Platini in una sera di Febbraio del 1982 al Parco dei
Principi di Parigi, dove andò in scena l’amichevole Francia-Italia. Michel
illuminò la platea parigina con colpi straordinari e l’avvocato sentenziò:
prendiamolo. In realtà fu l’Inter a mettere gli occhi per prima sul talento
francese. Già nel 1979 i nerazzurri misero Michel nel mirino “....dopo dieci
minuti mi resi conto che quello poteva essere un nuovo Meazza o un Di Stefano,
oppure un Pelè...” parole e musica di Giulio Capelli, attento osservatore al
servizio dell’Inter. Le frontiere però erano chiuse e il destino di Michel
prese un’altra piega. All’Inter non erano convinti delle condizioni fisiche di
Platini, già reduce da alcuni guai fisici importanti, e alla riapertura delle
frontiere virarono decisi sull’austriaco Prohaska. Si inserì così la Juve che
con una trattativa lampo di un giorno riuscì a portare Platini a Torino
lavorando benissimo sottotraccia e beffando l’Arsenal vero avversario alla
corsa all’acquisto del francese.
L’arrivo di
Platini fu quantomeno pittoresco come racconta un giornalista francese amico di
Michel: <Squillò il “telefono rosso”, trasmissione radiofonica francese che
prometteva 500 franchi alla notizia più sorprendente sfuggita ai giornali, ed una voce disse che Platini stesse partendo
per l’Italia. L’informatore era anonimo, ma solo un tecnico dell’aeroporto di
Lione poteva dare una soffiata del genere. Così a bordo di un “petit Cessna” a
quattro posti, Platini stava raggiungendo la Juve>. La trattiva dovette per
forza di cose chiudersi in giornata poiché quel 30 aprile era ultimo giorno
utile per trasferimenti dall’estero. Michel forzò la mano con il Saint-Etienne
e si narrò che riuscì a farsi mandare i documenti necessari allo svincolo via
telefax solo nel tardo pomeriggio sabaudo. La cifra del trasferimento fu
davvero irrisoria considerato il potenziale del francese tanto da far
dichiarare in seguito all’avvocato Agnelli “lo abbiamo comprato per un tozzo di
pane, lui ci ha messo sopra del fois gras”.
Il biondo
polacco invece catturò l’attenzione di un fine intenditore di calcio quale
l’avvocato, già qualche anno prima. A Buenos Aires, nel “resto del Mondo”
allestito da Enzo Bearzot per sfidare l’Argentina campione del 1978, si mise in
evidenza per il suo modo anarchico ma affascinate di giocare a pallone. Il suo
istinto travolgente folgorò il presidente Boniperti e l’arrivo a Torino fu
presto sancito. A ben vedere, la stagione 1982-1983 che andava a cominciare
sotto la guida tecnica di Giovanni Trapattoni, era ricca di ogni presupposto
per far sperare milioni di tifosi juventini. Dal canto mio non mi pareva possibile che una squadra cosi
forte non potesse vincere in Europa. La caccia
grossa alla Coppa dei Campioni era partita.
Le domeniche
di quella fantastica annata, si dipinsero anche di due ruote e volate spietate,
soprattutto nella sua primavera avanzata. Il ciclismo era l’altro sport seguito
da mio padre e mio zio, spesso nel giorno di festa si viaggiava con la nostra
Fiat 131 Panorama blu in tutta Lombardia per seguire le gesta di Omar, figlio
di un amico di famiglia, che da juniores ormai si stava affacciando alle porte
del professionismo (poi le cose non andarono così bene...) come una promessa
della velocità italiana su strada.
I ricordi di
grandi pranzi in trattoria con tanti amici di mio padre e mio zio, sono carezze
all’anima, tra bicchieri di vino, spaghettate al pomodoro e salami nostrani si
cantava spensierati e felici dopo la settimana lavorativa. Poi ci si appostava
in zona traguardo per seguire la volata finale in attesa che Omar ci regalasse
una vittoria. Trepidazione, attesa e la classica radiolina all’orecchio per
seguire le partite di calcio. Il mio tifo su due ruote fra i grandi, fini sulle
ruote di Giuseppe Saronni, un piemontese di grande classe ciclistica che si
contrapponeva in quegli anni al trentino Francesco Moser, fisicità e potenza da
vendere. La rivalità fra i due divise l’Italia ciclistica come con Felice
Gimondi e Gianni Motta nei tempi appeni passati.
Il 5
Settembre 1982 a Goodwood, nel sud dell’Inghilterra, Saronni dipinse il suo
capolavoro ciclistico vincendo il campionato del Mondo con uno scatto, nell’ultimo
chilometro di gara, da antologia. Verrà ricordata per sempre come la “fucilata
di Goodwood” e ad Adriano De Zan toccò l’onore come in precedenza a Nando
Martellini nella notte del Bernabeu, di gridare agli italiani davanti alla
televisione “Campione del Mondo!”. In casa esultammo alla grande. Saronni
sarebbe rimasto il mio ciclista preferito di sempre, seguito in tempi più
recenti dal “El Diablo” Claudio Chiappucci. Lo sport italiano sembrava avesse
indossato le vesti di Re Mida, ogni cosa toccasse si tramutava in oro.
Un’estate così fu impossibile da dimenticare