martedì 27 febbraio 2024

 


A mio nonno, mio papà e mio zio

 


 “lo abbiamo comprato per un tozzo di pane, lui ci ha messo sopra del fois gras”

Gianni Agnelli a proposito di Michel Platini

 

 


 

 Capitoli


1      La maglia di Pablito

2      Lo scalpo dei campioni

3      Maledetta Atene

4      Stelle senza luce

5      Calcioni negli stinchi

6      Ad un passo dalla gloria

7      Heysel

8      L’ultimo ballo

9      Omaggio a Le Roi

10  Duemilaventi

Ringraziamenti


1. La maglia di Pablito


Ricorderò per sempre l’estate del 1982, fu la più bella tra quelle vissute da bambino. A sette anni compiuti da qualche mese cominciavo a rendermi conto della realtà della vita e tanti flashback di quelle calde giornate estive sono stampate a caratteri forti nella mia memoria.

Eravamo diventati da poco campioni del Mondo in Spagna e Paolo Rossi era senza ombra di dubbio la persona più importante della mia esistenza. Ad alimentare queste mia ultima certezza ci pensò mio zio Massimo che un giorno tornò a casa con una maglia della nazionale Italiana prodotta dalla “Le Coq Sportif” col numero 20,  comprata in una gita sul lago di Garda.  Inutile sottolineare come quella maglia divenne per me una sorta di seconda pelle, volli indossare sempre e solo quella, quasi a sottolineare il mio legame indissolubile con quel ragazzo di Prato che aveva tramutato le tristezze in gioia popolare durante il mese di Luglio del 1982.

Vivevo così le mie giornate: ciabatte, bermuda, bocce e maglia di Pablito, libero di scorrazzare sui campi della bocciofila Esperia di Crema. L’unica intrusione esterna era quella di mia nonna Bruna che dalla finestra sopra i campi da gioco, dove i miei nonni abitavano, si affacciava ogni tanto per controllare che le mie bocciate continuassero in tranquillità. Mi piaceva giocare a bocce, mi piaceva l’evoluzione del gioco e che ogni “manata” fosse diversa dalla precedente, fatto che suscitava lo sviluppo di notevole fantasia nel vedere le possibili giocate e di conseguenza la necessità di grande concentrazione. Mio zio Massimo era un buon giocatore di bocce, mio padre Franco meno, ma la passione per le bocce la mise a disposizione come dirigente della società bocciofila. Uno il braccio, l’altro la mente.

La nazionale azzurra del mondiale spagnolo segnò personalmente uno spartiacque definitivo fra i giochi di bambino, costruzioni lego e macchinine, e la futura passione per il calcio assorbita quasi per intero dalla squadra di famiglia, una scelta pressoché obbligata da nonno, zio e papà. La Juventus.

Mio nonno Nilo, nome greco che evocava uno dei più lunghi corsi d’acqua al mondo, diventò bianconero ammaliato dalla classe elegante e irriverente di Omar Sivori, e dalla potenza di un gigante gallese di nome John Charles. I suoi due figli non poterono che diventare bianconeri, stessa sorte che toccò a me e a mio cugino Mauro che vide i natali proprio in quel magico 1982.

La nostra era una famiglia di strada . Mio Nonno iniziò la professione di straccivendolo in giovane età, era uno “strasser” come si dice a Crema. Una scelta dettata dalla fame e dal bisogno di un futuro migliore nel difficile immediato dopo guerra. Vissero nella popolare Via Venezia a Crema, un’accozzaglia di abitazioni che si affacciavano su un grigio cortile centrale, “la corte della Venezia”. Mio padre nacque nel ’47, mio zio nel ’51. Con gli anni poi mio nonno avrebbe intrapreso l’attività di antiquario, con passione e competenza divenne uno dei più apprezzati della zona cremasca. Papà e zio Massimo si buttarono invece sul mestiere del “rutamat” , il commercio di rottami metallici, lavoro spacca schiena durante la settimana e grande palpitazioni per i colori bianconeri la domenica.

Il quadro generale dopo quel famoso 11 Luglio, giorno in cui battemmo la Germania Ovest per 3-1 nella finale del mondiale, era di rinascita. L’ormai agonizzante terrorismo rosso continuava a mietere vittime mente la mafia siciliana alzò il tiro in affari sempre più grandi sostituendo la vecchia doppietta a canne mozze con l’uso del mitra e passando dalla guida del “boss dei due mondi” Tommaso Buscetta a “la belva” Salvatore Riina. La vicenda P2 e l’impiccagione del banchiere Roberto Calvi sotto un ponte di Londra furono fatti gravi, pesanti, ma tutti i dubbi e le angosce sembravano dissolversi nell’immaginario collettivo per la gioia di un titolo mondiale alla vigilia insperato.

Se Paolo Rossi era in quel momento il padrone della nazione, il suo fedele socio in popolarità rispondeva al nome di Enzo Bearzot. A lui, Pablito doveva moltissimo, praticamente tutto. Fu il “Vecio” a convocare Rossi per il mondiale spagnolo, sfidando un periodo di inattività dell’attaccante dovuto alla squalifica per il calcio scommesse e soprattutto opponendosi ad una spigolosa stampa italiana che spingeva per avere Roberto Pruzzo, goleador del campionato di serie A, fra i convocati di Spagna. La scommessa e la tenacia di Bearzot alla fine premiarono Rossi che dopo una prima parte di torneo mondiale sottotono disputata a Vigo, esplose clamorosamente e si assicurò oltre al titolo mondiale di squadra, quello di capocannoniere del torneo con 6 reti e in seguito il Pallone d’Oro per l’anno 1982.

Della spedizione spagnola figurarono ben sei giocatori juventini. Il capitano Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli e Rossi.  Il termine “blocco Juve” si manifestava in tutta la sua magnificenza. A quella spedizione mancava anche la chioma grigia di Roberto Bettega, altro sicuro titolare del mundial spagnolo, ma fermato pochi mesi prima da un grave infortunio subito in Coppa dei Campioni durante la partita di ritorno contro l’Anderlecht. Una squadra formidabile quella juventina a cui si aggiunsero in sede di calciomercato due assoluti protagonisti del mondiale appena terminato.  Il francese Platini e il polacco Boniek, semifinalisti con le loro rappresentative, aggiunsero quel tasso tecnico e di fiducia che proiettarono la compagine bianconera ad avere ben chiaro il futuro obiettivo calcistico: portare a Torino la Coppa dei Campioni.

La coppa dalle grandi orecchie stava diventando una sgradevole ossessione per i colori bianconeri tanto da mettere in secondo piano il primato in campionato. Dopo due scudetti consecutivi, il secondo dei quali appuntò la seconda stella sul petto della Juventus, l’obiettivo europeo era una priorità assoluta. La famiglia Agnelli voleva la Coppa dei Campioni per dare lustro alla propria dinastia calcistica fuori dai confini italiani. Ecco dunque che l’avvocato cercò di forgiare la sua creatura calcistica con due suoi pallini personali: Platini e Boniek. Per far spazio al francese fu sacrificato il talento educato dell’irlandese Liam Brady, giocatore geometrico, dal dribbling incisivo e dalla professionalità indiscussa. Il rigore realizzato a Catanzaro con esultanza rabbiosa, rete che di fatto regalò la seconda stella alla zebra, fu un epilogo che molti tifosi juventini porteranno per sempre nel cuore.  Il rispetto per quel ragazzo dolce e composto, che già sapeva da alcuni giorni di dover lasciare Torino, rimane tutt’ora immutato.

L’avvocato Agnelli, si innamorò follemente di Platini in una sera di Febbraio del 1982 al Parco dei Principi di Parigi, dove andò in scena l’amichevole Francia-Italia. Michel illuminò la platea parigina con colpi straordinari e l’avvocato sentenziò: prendiamolo. In realtà fu l’Inter a mettere gli occhi per prima sul talento francese. Già nel 1979 i nerazzurri misero Michel nel mirino “....dopo dieci minuti mi resi conto che quello poteva essere un nuovo Meazza o un Di Stefano, oppure un Pelè...” parole e musica di Giulio Capelli, attento osservatore al servizio dell’Inter. Le frontiere però erano chiuse e il destino di Michel prese un’altra piega. All’Inter non erano convinti delle condizioni fisiche di Platini, già reduce da alcuni guai fisici importanti, e alla riapertura delle frontiere virarono decisi sull’austriaco Prohaska. Si inserì così la Juve che con una trattativa lampo di un giorno riuscì a portare Platini a Torino lavorando benissimo sottotraccia e beffando l’Arsenal vero avversario alla corsa all’acquisto del francese.

L’arrivo di Platini fu quantomeno pittoresco come racconta un giornalista francese amico di Michel: <Squillò il “telefono rosso”, trasmissione radiofonica francese che prometteva 500 franchi alla notizia più sorprendente sfuggita ai giornali,  ed una voce disse che Platini stesse partendo per l’Italia. L’informatore era anonimo, ma solo un tecnico dell’aeroporto di Lione poteva dare una soffiata del genere. Così a bordo di un “petit Cessna” a quattro posti, Platini stava raggiungendo la Juve>. La trattiva dovette per forza di cose chiudersi in giornata poiché quel 30 aprile era ultimo giorno utile per trasferimenti dall’estero. Michel forzò la mano con il Saint-Etienne e si narrò che riuscì a farsi mandare i documenti necessari allo svincolo via telefax solo nel tardo pomeriggio sabaudo. La cifra del trasferimento fu davvero irrisoria considerato il potenziale del francese tanto da far dichiarare in seguito all’avvocato Agnelli “lo abbiamo comprato per un tozzo di pane, lui ci ha messo sopra del fois gras”.

Il biondo polacco invece catturò l’attenzione di un fine intenditore di calcio quale l’avvocato, già qualche anno prima. A Buenos Aires, nel “resto del Mondo” allestito da Enzo Bearzot per sfidare l’Argentina campione del 1978, si mise in evidenza per il suo modo anarchico ma affascinate di giocare a pallone. Il suo istinto travolgente folgorò il presidente Boniperti e l’arrivo a Torino fu presto sancito. A ben vedere, la stagione 1982-1983 che andava a cominciare sotto la guida tecnica di Giovanni Trapattoni, era ricca di ogni presupposto per far sperare milioni di tifosi juventini. Dal canto mio  non mi pareva possibile che una squadra cosi forte non potesse vincere in Europa.  La caccia grossa alla Coppa dei Campioni era partita.

Le domeniche di quella fantastica annata, si dipinsero anche di due ruote e volate spietate, soprattutto nella sua primavera avanzata. Il ciclismo era l’altro sport seguito da mio padre e mio zio, spesso nel giorno di festa si viaggiava con la nostra Fiat 131 Panorama blu in tutta Lombardia per seguire le gesta di Omar, figlio di un amico di famiglia, che da juniores ormai si stava affacciando alle porte del professionismo (poi le cose non andarono così bene...) come una promessa della velocità italiana su strada.

I ricordi di grandi pranzi in trattoria con tanti amici di mio padre e mio zio, sono carezze all’anima, tra bicchieri di vino, spaghettate al pomodoro e salami nostrani si cantava spensierati e felici dopo la settimana lavorativa. Poi ci si appostava in zona traguardo per seguire la volata finale in attesa che Omar ci regalasse una vittoria. Trepidazione, attesa e la classica radiolina all’orecchio per seguire le partite di calcio. Il mio tifo su due ruote fra i grandi, fini sulle ruote di Giuseppe Saronni, un piemontese di grande classe ciclistica che si contrapponeva in quegli anni al trentino Francesco Moser, fisicità e potenza da vendere. La rivalità fra i due divise l’Italia ciclistica come con Felice Gimondi e Gianni Motta nei tempi appeni passati.

Il 5 Settembre 1982 a Goodwood, nel sud dell’Inghilterra, Saronni dipinse il suo capolavoro ciclistico vincendo il campionato del Mondo con uno scatto, nell’ultimo chilometro di gara, da antologia. Verrà ricordata per sempre come la “fucilata di Goodwood” e ad Adriano De Zan toccò l’onore come in precedenza a Nando Martellini nella notte del Bernabeu, di gridare agli italiani davanti alla televisione “Campione del Mondo!”. In casa esultammo alla grande. Saronni sarebbe rimasto il mio ciclista preferito di sempre, seguito in tempi più recenti dal “El Diablo” Claudio Chiappucci. Lo sport italiano sembrava avesse indossato le vesti di Re Mida, ogni cosa toccasse si tramutava in oro. Un’estate così fu impossibile da dimenticare

 

2. Lo scalpo dei campioni


“Queste sono bestie grame, ci faranno dannare l’anima”

Mio padre era abbastanza inquieto, il sorteggio degli ottavi di finale di Coppa dei Campioni ci aveva riservato uno degli avversari peggiori: i campioni belgi dello Standard Liegi. Il calcio belga negli ultimi anni suonava come una condanna per la squadra bianconera: nella stagione 1977-1978 fu il Club Bruges di Ernst Happel a stoppare i sogni di gloria dei bianconeri in semifinale di Coppa dei Campioni. Il tecnico austriaco, tra i più preparati tatticamente, mise sotto scacco la squadra di Trapattoni utilizzando scientificamente la tattica del fuorigioco. La squadra belga ebbe la meglio per 2-0 nella partita di ritorno in Belgio, dopo i tempi supplementari, vanificando la vittoria con rete di Bettega al Comunale nella partita di andata. Ancora più cocente invece, l’eliminazione della stagione precedente quando fu l’Anderlecht ad escludere la Juve dalla coppa. Dopo il 3-1 in Belgio,  il ritorno al Comunale finì 1-1, con grosse recriminazioni di scarsa fortuna (due pali colpiti dai bianconeri) e una papera di Zoff sul gol belga. Partita che verrà ricordata anche per il grave infortunio accorso a Roberto Bettega.

Lo spauracchio belga quindi era vivo e vegeto. Ad alimentare il prurito e la tensione per il sorteggio di certo non benevolo, si aggiunse il fatto che la Juve al contrario delle aspettative estive, facesse un enorme fatica ad imporsi in campionato. Le scorie del mondiale sembrarono aver svuotato gli eroi di Spagna e anche i due gioielli stranieri, Platini e Boniek, non rispondevano ai desideri del popolo gobbo. In campionato la squadra partì col freno a mano tirato. Nelle prime due trasferte di campionato (a Genova con la Sampdoria e al Bentegodi con il Verona) arrivarono due sconfitte a conferma del momento difficile. Sotto accusa finì la guida tecnica del Trap, additato dalla stampa italiana come troppo “catenacciaro” e poco propenso a sviluppare un gioco propositivo.

A Settembre intanto era ricominciata la scuola, seconda elementare di Borgo San Pietro. Vedevo l’edificio scolastico dalle finestre del mio appartamento al terzo piano di Via Ponte delle Crema. Dalla mia stanza da letto che dividevo con mia sorella Giorgia, scrutavo le finestre della scuola e quella vicinanza mi dava un senso di conforto e rassicurazione. San Pietro era un quartiere particolare, il cuore della città, un quartiere popolare, una manciata di vie disegnate ad ingarbugliarsi tra di loro attorno alla chiesa parrocchiale che creavano nell’aria un senso glamour e misterioso. La casa dei miei nonni paterni era in via Griffini, tra il capannone dei pullman delle Autoguidovie e la vecchia osteria “Isola Bella”, trasformata da poco in una pizzeria, ma dove resistevano come una roccaforte del quartiere i due campi da bocce della società “Esperia”. Nel cortile esterno, a ridosso dei campi da bocce, tra tavolini in ferro verde e sedie di plastica bianco e rosse si consumava la vita mondana dei sanpietrini. Soprattutto le sere d’estate erano occasione di riunioni affollate, tra granite per i bambini e bicchieri di rosso per i più grandi, che spesso finivano in “cioche” pesanti. La sera del 11 Luglio, era qui che tra canti e balli sfrenati si celebrò la notte dell’Italia mundial. Via Rovescalli, Via San Bernardo, Via Riva Fredda, Via Venezia (la via dei “Terroni” per la presenza di famiglie meridionali in cerca di lavoro), Via Borgo San Pietro, Via Gervasoni, Via Ponte della Crema. Una dolce cantilena di nomi e situazioni. C’era la drogheria della “sciura Gina”, naso arcuato, voce stridula e battuta sempre pronta all’uso, dove Nonna Bruna mi spediva spesso a prendere il pane e due etti di prosciutto cotto con la promessa di una piccola mancetta, c’era “Mario l’ tabachì”, luogo di MS morbide di mio papà, segni di speranza sulle schedine del totocalcio e biglietti della Lotteria Italia. Negli anni si era creato la reputazione di posto baciato dalla fortuna (due premi importanti della Lotteria Nazionale e un tredici miliardario in schedina vennero vinti qui) e quindi veniva frequentato anche da forestieri in cerca di una piccola dose di culo. C’era “l’Isola Bella” sotto le finestre dei nonni e c’erano soprattutto una serie di portoni scuri e ambigui che si districavano come un serpente per tutto il quartiere. Nebbia e gelo primeggiavano in inverno, afa e zanzare regnavano d’estate. Profumo intenso di riso allo zafferano nelle giornate di Maggio, di sughetto di salamini coi fagioli a Novembre. Non un luogo facile, per nulla ricco o lussureggiante ma che attirava personaggi benestanti e in vista della città. Il perché l’ho scoperto recentemente, tra leggenda e verità, si racconta che dietro quei portoni tristi si nascondessero invece alcune case “felici” dove gli avventori si intrufolavano furtivamente col calare del giorno per usufruire dei servigi di donne dai facili costumi. Con la mia bicicletta percorrevo queste vie, con lo spirito di Giuseppe Saronni nelle gambe, sognando nuovi orizzonti anche se per me San Pietro rimaneva indiscutibilmente l’America. Fuori dai confini sanpietrini ci si poteva andare solo in situazioni particolari, quali la Fiera di Santa Maria o le bancarelle di Santa Lucia in piazza Duomo, ma la mia vita rimase rinchiusa in quei pochi metri quadrati per alcuni anni.

Negli ottavi dunque lo Standard Liegi, del forte portiere Preud’homme e del piccolo ma sgusciante attaccante olandese Tahamata. La partita di andata in Belgio fu la solita partita da Juve di Coppa. Dopo una partenza veemente e splendido gol di testa di Tardelli sugli sviluppi di calcio d’angolo, la squadra si ritirò indietro cercando di amministrare la partita, e concedendo l’iniziativa agli avversari. Un fallo ingenuo in area di Brio consentì a Tahamata di siglare su rigore il gol del 1-1 finale. La partita di ritorno fu vissuta quindi con una vigilia carica di tensione. Quella sera sul divano del salotto, di fianco a mio padre, sentì la voce di Nando Martellini uscire dalla televisione. Mi era concesso solo nelle notti di coppa restare sveglio fino a tardi per guardare la partita, e così quelle notti divennero per me speciali. Il Trap cambiò qualche carta in tavola. Fuori Brio, ClaudioGentile (con un insolito numero 5 sulla schiena) spostato al centro davanti a Scirea. Sulla fascia destra col numero 2, Massimo Bonini, altro sicuro azzurro se non fosse per la sua origine sammarinese, sulla sinistra al posto di Cabrini, Cesare Prandelli. La Juve si scosse di dosso tutte le paure e con mezz’ora da antologia spezzò via lo Standard Liegi e i fantasmi annessi. Dopo 5 minuti, Boniek cavalcò alla sua maniera sulla sinistra e non appena entrato in area di rigore servì un cioccolatino di esterno destro per l’accorrente Paolo Rossi: gol. Il Comunale stipato all’inverosimile esplose. La Juve sembrava irrefrenabile. La partita terminò di fatto alla mezz’ora. Uno-due stretto a metà campo tra Rossi e Platini che mise Rossi davanti al portiere dopo una corsa solitaria di 30 metri.  Finta ad eludere il  tentativo di recupero del difensore e palla morbida a battere il portiere Preud’homme. Che giocatore Pablito!

Finalmente la Juve sembrò aver messo in un cassetto gli antichi timori europei giocando una partita degna della massima coppa. La squadra navigò a vista in campionato, restando a ridosso della Roma capolista, giungendo nel Marzo del 1983 all’appuntamento cruciale di Coppa dei Campioni in condizioni favorevoli. L’ostacolo che il sorteggio di coppa mise davanti ai bianconeri fu di quelli elettrizzanti: i campioni d’Europa in carica, gli inglesi dell’Aston Villa. Una squadra arcigna, che disponeva del capitano Dennis Mortimer, capelli lunghi e dinamismo straordinario, il fantasista Gordon Cowans (visto poi in Italia nelle file del Bari) grande visione di gioco e tiro da fuori, l’ala sinistra Tony Morley personaggio bizzarro in campo e fuori. Il rude Peter White, già campione d’Inghilterra con il Nottingham Forest nel 1978, polsini di spugna e grande abilità aerea. Quando non spizzava per i compagni, la spediva direttamente in porta. E Gary Shaw “il Bambino”, 22 anni e capelli a caschetto biondi, cresciuto nelle giovanili dei Villa di cui era tifoso che si trovò a sostituire il suo idolo Little (danneggiato da parecchi infortuni)

2 marzo 1983, Villa Park di Birmingham ore 19. Fu la partita che molti hanno dimenticato e smentì l’opinione pubblica sul fatto che Trapattoni fosse un difensivista. In Italia venne trasmessa da Tmc con il commento di Luigi Colombo e Fabio Capello. Calcio di inizio e...pubblicità con Zoff che saltava la staccionata per ricordarci che a 40 anni si può essere ancora scattanti.  Si tornò alla partita con la Juve già in vantaggio. Bettega scese sulla sinistra, mise il piede sul pallone e si girò dando di tacco a Cabrini che stava arrivando. Crossa basso al centro, Paolo Rossi si abbassò di testa e anticipò il baffuto Mortimer.  La partita fu tosta come si vuole per quelle disputate in terra d’Albione. Nella ripresa il Villa riuscì a pareggiare con Cowans ma la Juve volle fortemente quella vittoria. Dopo un palo di Rossi, la rete che decise la partita fu di quelle che difficilmente si scordano. Bettega dalla fascia sinistra servì centralmente Platini che con una palla di esterno destro sublime mise Boniek davanti al portiere. Il polacco prese la mira ed infilò sotto la trasferta. Tripudio. La Juve vinse per la gioia dei tifosi gobbi  incollati alla televisione, prima squadra a vincere su un campo inglese in Coppa dei Campioni. Restò negli occhi di tutti la magia di Michel, un assist che somigliò tanto ad un’opera d’arte. Un bagliore di classe che fece precipitare ai suoi piedi incantanti, milioni di tifosi in venerazione. Il francese stava per diventare “Le Roi” a tutti gli effetti. Il suo fare a volte disincantato e distaccato nei confronti del calcio lo rendeva agli occhi di milioni di Juventini, come la donna più bella di tutte, a volte un poco snob, ma che quando voleva sedurti ci riusciva indossando abiti sexy. A Platini per far perdere la testa bastava sfornare assist come se fossero stelle filanti o mettere la palla sotto il sette eseguendo calci di punizione magistrali.

Il ritorno al Comunale fu un altra partita da incorniciare.  Incassi record ai botteghini con quasi un miliardo delle vecchie lire incassate e ancora Platini sugli scudi. Dopo un quarto d’ora dalla sinistra si accentrò e fece partire un tiro non certo irresistibile che bucò la fragile opposizione del portiere inglese Spink. La partita fu messa in discesa da un colpo di testa di Tardelli su cross di Paolo Rossi prima dell’intervallo. La ciliegina sulla torta la mise ancora Platini nella ripresa. Fuga in contropiede con Boniek, palla in mezzo, tentativo goffo di controllo da parte di un difensore inglese e il 10 bianconero prima si liberò dell’avversario con un tocco di punta e sull’uscita del portiere, di esterno destro, siglò il 3-0 che poi divenne 3-1 finale.

I campioni in carica furono spodestati, lo scettro era nelle nostre mani. Amburgo, Real Sociedad e i polacchi dello Widzew Lodz non sembrarono mietere troppe paure nel futuro sorteggio delle semifinali. Mai come in quel momento la Juventus si sentì pronta per sollevare la coppa dalle grandi orecchie.

3. Maledetta Atene

“Chi abbiamo pescato? I polacchi? Ottimo....”

Mio padre sembrava felice del sorteggio. Io annuivo felice anche se pensavo interiormente che una squadra campione nazionale non sarebbe mai stata una squadra materasso. Pensieri di bambino, prudenti e realisti quanto bastava. I campioni di Polonia dello Widzew Lodz sembravano davvero un avversario alla portata, soprattutto per una semifinale di Coppa dei Campioni, anche se ad onore del vero nei quarti di finale spedirono a casa una squadra temibile quali i campioni d’Inghilterra del Liverpool.

In campionato fu la Roma ad aggiudicarsi lo scudetto, guidata dal Barone Niels Liedholm e con interpreti straordinari come Falcao, Roberto Pruzzo e Bruno Conti. Alla squadra bianconera, che pur riuscì ad imporsi in entrambi i confronti diretti con i lupi capitolini, risultarono fatali le sconfitte nel derby di ritorno col Torino (dallo 0-2 al 3-2 per i granata in pochi minuti) e il 3-3 interno con l’Inter, tramutato in 0-2 a tavolino, a causa di un mattone che sfasciò il vetro del pullman interista in arrivo al Comunale e che colpì Giampiero Marini. Platini ebbe comunque la gratificazione di vincere la classifica dei cannonieri con 16 reti.

Manco a dirlo l’attenzione fu però incentrata sul futuro cammino in Coppa e lo scudetto sfumato venne messo in secondo piano, tutti credettero che la Coppa dei Campioni fosse ormai a portata di mano. La semifinale di andata contro l’ex squadra di Boniek si mise subito in discesa. In un Comunale esaurito come al solito nelle notti di coppa, fu Nando Martellini a renderci partecipi dell’evento tramite la sua sapiente telecronaca. Dopo pochi minuti, Platini dalla destra fece partite una palomba per Rossi appostato in area di rigore, controllo di petto e palla sulla corsa di Tardelli che con un gran botta deviata da un difensore portò in vantaggio la Juve. Nella ripresa fu Boniek con un’azione dirompente a propiziare il 2-0 finale. Fuga solitaria di 50 metri, scambio con Rossi, e tiro in diagonale con miracolo del portiere polacco. Bettega da due passi sulla respinta dovette solo appoggiarla nel sacco e correre sotto la curva Filadelfia in festa.

Anche nel ritorno in terra polacca le cose si misero subito bene. Questa volta fu Bruno Pizzul a raccontarci la partita per la Rai. Verso la mezz’ora Platini conquistò una palla a metà campo, giravolta su stesso e magico lancio in verticale tra ultimo difensore e portiere avversario dove si infilò fulmineo Pablito per un gol al volo da rapinatore d’area. I polacchi con la forza dell’orgoglio riuscirono a ribaltare il risultato prima del rigore finale realizzato da Platini per fallo su Boniek che sancì il 2-2 definitivo. La Juve era in finale, 10 dopo la grigia serata di Belgrado contro l’Ajax del fuoriclasse Cruijff. Ci sembrò di toccare il cielo con un dito. Avevamo una squadra fortissima con un gioco finalmente convincente. Mio padre era raggiante, a me sembrò che tutto fosse bellissimo. Quella squadra in quel momento, penso fu la massima espressione, mai più vista, della storia juventina. Mancava solo l’ultimo atto: l’Amburgo, tedeschi, ce l’avrebbero fatta sudare.

Il 15 Maggio del 1983, la Juve salutò il campionato sconfiggendo il Genoa per 4-2 al Comunale. Mancavano 10 giorni alla finale di Atene, sede scelta per ospitare l’ultimo atto continentale. Furono 10 giorni strani, carichi di dubbi per il Trap. La squadra sembrò scarica. Claudio Gentile affermò in seguito come una semifinale tutto sommato agevole avesse avuto un influsso negativo sulla squadra, sottratta da quella tensione positiva, vitale in quei momenti. La Juve sentì senza dubbio il peso del favore del pronostico. Nell’amichevole infrasettimanale disputata al Menti di Vicenza venne sconfitta per 2-1 dai biancorossi di casa. Stranamente i giocatori sembrarono scarichi e nervosi. Intanto la stampa continuò a pompare la squadra come se la coppa fosse già in tasca. Una situazione paradossale che uscì nella sua crudeltà sul campo dell’olimpico di Atene, la sera del 25 Maggio. Ricordo che mio padre era solito leggere il quotidiano milanese “La Notte”, il quale a differenza di tutti i giornali che uscivamo al mattino, arrivava nelle edicole a metà pomeriggio. Il titolo nelle pagine sportive fu esplicito “Juve, mangiati un hamburger a cena!”. Per la stampa italiana non c’erano grossi dubbi a riguardo.

Guardai la partita di fianco a mio padre, più di una volta lo vidi trattenere bestemmie e imprecazioni e i suoi occhi lucidi al triplice fischio sancirono in me la certezza che qualcosa fosse andato storto. L’Amburgo era una squadra solida, sapientemente allenata da una nostra vecchia conoscenza.  Quel Ernst Happel che con il Bruges qualche anno prima ci mandò fuori di testa attuando un fuorigioco scientifico (per 25 volte finimmo in offside nella partita di Torino). L’allenatore austriaco si dimostrò uno dei migliori allenatori di sempre, a fine carriera conterà 17 titoli vinti in giro per l’Europa e il record di 3 finali di Coppa dei Campioni (di cui 2 vinte) disputate con 3 squadra diverse (Feyenoord, Bruges e Amburgo.....non esattamente tre colossi europei). Di quella squadra facevano parte due nazionali tedeschi quali il difensore Manfred Kaltz e il capitano, il possente centroavanti Horst Hrubesch. La loro sete di vendetta dopo la finale del mondiale, in cui figurarono quasi da comparsa al cospetto dello strapotere azzurro, venne fuori impietosa. Ma la maggiore certezza su cui i tedeschi potettero disporre fu quella di non essere i favoriti e quindi liberi di testa e di gambe. Quarantacinque mila tifosi juventini seguirono la squadra fino ad Atene. Ad attenderli la delusione più grande della loro vita calcistica

Fra i presenti di quella maledetta sera c’era l’amico Piero  “La finale di Atene con l’Amburgo di Hernst Happel mi è rimasta scolpita nella memoria perché fu la prima trasferta all’estero al seguito dei bianconeri del mitico Giovanni Trapattoni. Come scordare la partenza da Crema all’alba con i due pulman organizzati dallo Juventus Club di Crema dell’indimenticato presidentissimo Attilio Martinenghi. Il clima caldissimo durante il viaggio aereo, con l’ingorda lettura dei giornali e i relativi commenti che ci vedevano come gli assoluti favoriti per la vittoria della Coppa, e ancora il fragoroso applauso al comandante dell’aerobus al momento dell’atterraggio all’aeroporto di Atene. La spasmodica attesa dell’evento, utilizzata per la visita allo splendido Partenone e per un pranzo nelle viuzze della capitale con acquisto di cadeaux. E poi il trasporto in autobus verso lo stadio Olimpico Spyros Louis, accompagnato da canti e cori ininterrotti e beneauguranti. Sistemati noi cremaschi a metà altezza sul centro sinistra della curva juventina, con l’uscita sul campo dei giocatori delle due squadre per il riscaldamento, ho nella mente il primo ricordo vivido che mi è rimasto di quella serata. Il gruppone compatto dei “crucchi” che s’impegnava e sudava per oltre mezzora in esercizi lungo la fascia laterale opposta alla tribuna centrale e gli juventini che alla spicciolata arrivavano proprio sotto la curva di noi tifosi e facevano qualche blando esercizietto tecnico fisico a livello individuale, intervallati da continui saluti e risposte al pubblico amico che li richiamava e applaudiva continuamente. IL Trap sempre sotto la curva prendeva in disparte e parlava ad ognuno dei suoi giocatori per dare gli ultimi suggerimenti. Della partita in sé, giocata a ritmi blandi e ben controllata dai tedeschi, ricordo poco e nulla oltre al tracciante di Felix Magath che partendo dalla loro tre quarti offensiva sinistra s’insaccava beffardamente indirizzato proprio nella mia direzione. Null’altro da segnalare e delusione totale per una squadra che si era presentata come netta favorita dell’evento e con un solo duello individuale sulla carta a loro favore grazie al temibile panzer Horst Hrubesch opposto al nostro poderoso Sergio Brio. Quest’ultimo e il generoso Massimo Bonini, gli unici due calciatori diciamo così normali inseriti in una formazione bianconera di fuoriclasse stellari. La seconda immagine che mi è rimasta impressa nella mente è quella dell’immensa hall dell’aeroporto di Atene avvolta in un silenzio spettrale, con migliaia di tifosi juventini bivaccanti a terra in attesa del loro volo di ritorno in Italia. Non volava una mosca nemmeno durante il viaggio di ritorno ed anche al momento dell’atterraggio sul suolo italico nessuno azzardò il ben che minimo applauso al pilota. La mia ultima trasferta estera con la Juventus”.

 

Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea, Bettega, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek fu la formazione iniziale di quella sera con Domenico Marocchino che entrò nella ripresa senza lasciare segni di gloria.

Già dal fischio di iniziò del rumeno Rainea, la Juventus sembrò spaesata, bloccata sulle fasce da una tattica perfettamente azzeccata di Happel. Il gol di Felix Magath che uccellò Dino Zoff dopo pochi minuti con un tiro da fuori area, rimase l’unica rete dell’incontro. Nel momento più importante la Juve bucò clamorosamente. Passaggi elementari sbagliati per approssimazione, nervosismo serpeggiante e maggior dato negativo nessun conclusione effettivamente pericolosa verso la porta avversaria in 90 minuti di gioco.  Anzi fu ancora Magath nel finale in contropiede a sfiorare il 2-0. Ci mancò in verità un rigore abbastanza evidente su Platini nella ripresa, ma star qui a recriminare sugli arbitri è esercizio che non mi appartiene. Giampiero Galeazzi intervistò in tribuna l’avvocato Agnelli appena dopo il triplice fischio. Quest’ultimo rese onore all’Amburgo con la consueta eleganza mentre la vittima sacrificale venne individuata nei giorni seguenti in Giovanni Trapattoni, a cui la stampa italiana imputò il fatto di essere stato portato a spasso come un cagnolino da Happel. “Non si va all’opera con 8 tenori” dichiarò in seguito il Trap, ammettendo in parte di non essere riuscito a mettere a fuoco la partita in senso tattico. Fu senza dubbio, e rimane tutt’ora,  la più grossa delusione di bambino juventino. Fuori da casa sentivo i clacson degli anti juventini che festeggiavano. Per la prima volta si scendeva in strada per festeggiare una sconfitta (anche se dei rivali) piuttosto che una vittoria della propria squadra del cuore. Piansi copiosamente. Maledetta Atene.

 

4. Stelle senza luce

Vinse Tiziana Rivale con “Sarà quel che sarà”  ma è indubbio che i Matia Bazar e le loro “Vacanze Romane” avrebbero meritato di più del premio della critica e solo dopo ci si accorse che “L’Italiano” di Toto Cutugno sarebbe diventato un secondo inno nazionale. Insomma quel Festival di Sanremo del 1983 lasciò un po’ di amaro in bocca, ma cosa vuoi, usando un aforisma nietzschiano potremmo dire che la vita è fatta di rarissimi momenti di grande intensità e di innumerevoli momenti scomodi. La maggior parte degli uomini però, ripudiando gli intervalli difficili, finisce col rammentare solo aspetti ritenuti gradevoli.  Ma forse, paradossalmente, essere vivi consiste nell’ andare alla ricerca degli istanti morti. Allora una foto è un istante arrestato, il più forte, il più toccante, il più doloroso. Se a uno juventino dici “Atene”, lo accoltelli, se dici “Magath” lo uccidi. Nel calcio ci sono luoghi che diventano ferite, una strana geografia dolente. Quella sera fu una specie di conferma, un grigio rito di passaggio, l'ennesimo. Il bello, anzi il brutto, è che non esiste spiegazione al buio. “Blocco psicologico?” No ma come, per campioni come Bettega e Zoff, Tardelli e Rossi, Platini e Boniek, Gentile e Scirea, il bel Cabrini e il coriaceo biondo Bonini? Non credo nella “stregoneria” di un trofeo proibito alla Juve dirà Giovanni Arpino: “la sconfitte hanno una logica: se rinunciano alla difesa anche i brasiliani possono perdere un mondiale, ma se diventano umili anche i tedeschi, spesso traditi dalla loro arroganza atletica, possono beffare tutti”. Tuttavia era uno di quei momenti che non si possono misurare con l’orologio, ma solo con i battiti del cuore dei tifosi, la Juventus doveva vincere la Coppa dei Campioni, dopo i danesi dopolavoristi dell’Hidrove, la faticaccia con lo Standard di Liegi, dopo il vapore reso stantuffo nel caliginoso Villa Park e le secchiate di pioggia del Comunale, dopo quei polacchi del Lodz, dannatamente spigolosi, eppure domati in semifinale. Ma laggiù, nel catino sudato dell'Olimpico di Atene, esaurito l'effimero colpo di testa di Bettega deviato dal portiere Stein, l’Amburgo, robusto, scaltro, del santone Happel, (che probabilmente pensava di trovarsi nella medesima complicata condizione di cinque anni prima a Londra), passerà in vantaggio con un tiro beffardo, vagamente solforoso, scagliato dal satanasso Felix Magath dal limite dell'area, che beffò Zoff. C’era tempo, quasi tutta la partita, ma la Juve, imballata e impalpabile, restò immobile, inchiodata a quella panchina di Corso Umberto a Torino con in braccio una storia apparsa troppo pesante. Forse c'era un rigore su Platini, però nella sostanza cambiò poco dentro gli occhi vitrei di Giovanni Trapattoni, i cui fischi non richiamarono all’ordine nessun gregge d’Arcadia; la Juve non riuscirà a segnare in quello stadio costipato di bianconero. Il giorno dopo ebbe postumi tragicomici nell’Italia del benessere e del disincanto, del “Ciao” e delle feste in garage col “Mangianastri”, autentico strumento da "tombeur de femmes" con il fastidio dalla necessità di girare il nastro che comportava la momentanea interruzione della copula almeno fino all’avvento dell’ auto-reverse. Molta gente si mise in mutua, altri in ufficio furono costretti a rinchiudersi in uno sgabuzzino, mentre sui muri colava ancora la vernice di quel “Grazie Magath” scritto dovunque in tutta fretta, nella notte caustica dei campanili, ad aumentare la sofferenza. Eppure mi è parso corretto cogliere, nell’amarezza della sconfitta ateniese, almeno il conforto dell’eterna bellezza di un gioco capace di sorprendere o vanificare ogni programmazione perché la logica del calcio ha sempre un limite o il suo contrario.

 

Simone Galeotti, è un amico di Facebook, di quelli virtuali (prima o poi un giorno ci incontreremo ed abbracceremo davanti ad un bicchiere di Chianti delle sue zone) e sempre leali. Con le sue storie di calcio è una guida quasi spirituale per chi in questi giorni vuol scrivere di calcio. Quello

che avete appena letto è la sua storia sulla finale di Atene che gentilmente mi ha concesso di inserire nel mio racconto. Grazie di cuore.

 

5. Calcioni negli stinchi

Se l’estate del 1982 fu per me la più bella di sempre, quella del 1983 non poteva dirsi altrimenti. La sconfitta di Atene bruciava ancora bollente nelle vene nonostante un mese di Giugno in cui la Juventus si riscattò in parte vincendo Coppa Italia e Mundialito per club.

Ad inizio Luglio,  i miei genitori parcheggiarono il sottoscritto e mia sorella Giorgia a Martinsicuro, piccola località balneare dell’Abruzzo. Ricordo con nostalgia e piacere le lunga vasca lungo l’Autostrada del Sole a bordo di una Fiat Ritmo bianca trainando la nostra roulotte. Si partì appena dopo cena e si viaggiò di notte per essere sul posto di villeggiatura abruzzese con le prime luci dell’alba. In macchina durante quei lunghi viaggi non riuscì chiudere occhio per la trepidazione dell’inizio delle vacanze, cosi mi divertì ad imparare le provincie italiane dalle targhe delle macchine che vedevo sfrecciare in autostrada

C’erano troppi bambini crucchi in quel campeggio che forse ancora scottati dalle pappine prese in finale al mondiale, alzarono la voce in scherno verso noi bambini bianconeri e si trasformarono per l’occasione in tifosi dell’Amburgo, anche se di fatto non lo erano. E allora le partite di calcio sulla spiaggia risultavano molto tirate e ai biondi amici teutonici qualche calcione sugli stinchi volava senza remore. Sempre roba di poco conto si intende. Però una sorta di vendetta corporale andava loro inflitta.

Dalle radio sotto gli ombrelloni, gli italiani ascoltavano impazziti una hit cantata da due ragazzi torinesi che sembravano però spagnoli, almeno nel nome.“Vamos a la playa” dei Righeira restò prima in classifica per sette settimane filate ed ottenne in seguito un successo a livello mondiale di notevole rilievo.

Dopo Atene, la Juventus si rituffò fra le mura italiche per giocarsi la Coppa Italia e il Mundialito per club. La Coppa Italia, dopo un estroso girone a 6 squadre nell’Agosto del 1982 con Catania, Pescara, Milan, Genoa e Padova e gli ottavi di finale superati ai danni del Bari a Febbraio 1983, vide la sua fase finale disputarsi interamente nel Giugno del  1983. La Juve regolò nei quarti di finale con partite di andata e ritorno la Roma, fresca campione d’Italia (3-0 al Comunale e 2-0 esterno a Roma, per ribadire chi fossero realmente i più forti....). In semifinale sconfisse l’Inter (2-1 a Torino, 0-0 a San Siro) e terminò la sua corsa vincente col Verona. Dopo la sconfitta per 2-0 nella finale di andata al Bentegodi, Rossi e una doppietta di Platini ribaltarono il risultato nella partita di ritorno al termine dei tempi supplementari.  La squadra del Trap si concesse poi il lusso sul finire del mese di mettere il proprio nome in bacheca al Mundialito per club, torneo ad alta partecipazione di spettatori disputato a San Siro ed organizzato dall’emittente televisiva Canale 5 di un rampante imprenditore: Silvio Berlusconi. Inter, Milan, gli uruguaiani del Peñarol e i brasiliani del Flamengo arrivarono alle spalle dei bianconeri in un girone all’ italiana.

A Luglio due bandiere bianconere lasciarono  Torino. A dire il vero il mito di Dino Zoff smise per sempre. A 42 anni era arrivato il tempo giusto per appendere i  guanti al chiodo dopo una carriera straordinaria suggellata dalla coppa del Mondo alzata da capitano a Madrid. Lo ritroveremo qualche anno dopo il buon Dino, carattere d’acciaio e carisma poco appariscente ma indiscusso. Dopo la parentesi non troppo fortunata sotto la guida di Rino Marchesi, il presidente Boniperti pensò a Zoff come allenatore dei bianconeri. Una Coppa Italia e una Coppa UEFA furono il suo bottino personale con una squadra che esprimeva concetti di calcio operaio come poche altre volte: corsa, grinta e conclusioni in porta. Gli preferirono in seguito il calcio champagne di Gigi Maifredi. Ahimè.

Per Roberto Bettega, ragazzo juventino figlio del Combi le sirene canadesi suonarono per un fine carriera tranquillo in un campionato senza troppe pretese. Bobby gol lasciò con 129 gol realizzati con la casacca gobba e un futuro da dirigente che gli venne poi assegnato. Un vero juventino che mai a sconfessato la propria fede.

A Torino al loro posto arrivarono un giovane portiere dai grossi mezzi fisici, baffi d’ordinanza e guascone come pochi: Stefano Tacconi dall’Avellino. In attacco sbarcarono Domenico Penzo che aveva ben figurato nelle file del Verona e Beniamino Vignola, furetto offensivo dai piedi buoni. La vittoria in Coppa Italia ci diede credito per disputare nella stagione successiva la Coppa delle Coppe, manifestazione riservata ai soli vincitori delle varie coppe nazionali. Una possibilità che stuzzicava l’ambiente bianconeri, quella coppa ancora non figurava in bacheca e sarebbe stata giocata con impegno. Ma il pensiero dominante era sempre la coppa dalle grandi orecchie e per riuscire un giorno a sollevarla c’era solo una possibilità: vincere lo scudetto per potervi partecipare ancora. C’era da far di necessità virtù. E la Juve si presentò alla nuova stagione calcistica più agguerrita che mai.

Arrivò stancamente Settembre, iniziò la scuola ed il campionato. Per me invece cominciò una nuova stagione della vita, la più bella ed entusiasmante, la più amata. Quella del calcio giocato. Mia mamma si convinse a portarmi a giocare negli esordienti dell’Unione Sportiva San Luigi di Crema. Arrivarono in regalo le prime scarpette da calcio, un paio di Adidas Pierre Littbarski.  La maglia in lanetta del “Sanlu” era bianca con delle righe sottili gialle verticali. Giocai con bambini poi grandi di un anno ma me la cavai abbastanza bene, ero una punta veloce dal dribbling facile. Il mio primo allenatore Nando mi insegnò molta tecnica e soprattutto il rispetto delle regole. Se le scarpe al sabato pomeriggio non erano perfettamente pulite e ingrassate, facilmente si finiva a fare il guardalinee o guardare i compagni dalle panchine fuori dal campo di gioco.

Il centro giovanile San Luigi divenne a tutti gli effetti la mia seconda casa anche perché visto la vicinanza alla mia casa vera, mi fu concesso di frequentarlo spesso. Due erano i luoghi speciali di quel luogo: il “cemento”, una striscia grigia lunga quaranta metri e larga una decina, delimitata da alberi, dove qualcuno aveva lasciato due porticine verdi larghe un metro e alte settanta centimetri. Sul cemento si diventava grandi e si giocava duro. Le sfide due contro due erano all’ordine del giorno, interi pomeriggi di sfide, dribbling e scivolate. Intanto i compagni di quelle sfide divennero i miei migliori amici. Il Benz, Massi, il Bobo. Uno in particolare lo è ancora, il Seve, tanto da avermi accompagnato da testimone fino all’altare delle mie nozze.

Poi c’era “il secondo campo”, un pezzo di terra con due porte di ferro che sorgeva di fianco al campo principale della squadra, delimitato da una parte da un fosso (raggiungemmo vette di abilità ed equilibrio assolute nel tentativo di recuperare palloni finiti dentro) e una montagnetta che portava alle antiche mura venete della città, dall’altra. Quegli interminabili pomeriggi di calcio mi portarono in dote anche un soprannome che resistette per alcuni anni: Briaschi. Come il calciatore della Juve che intanto si stava facendo largo con buone prestazioni. Il secondo campo veniva usato quando si era in tanti e le sfide erano spesso bellissime. Fu territorio però anche di altre imprese. C’erano degli alberi di cachi appena entrati e uno dei passatempi preferiti era quello di arrampicarsi per accaparrarsi qualche frutto. Dal basso della mia altezza risicata non mi riusciva la scalata e quindi cercavo di colpire i rami con dei sassi per far cadere i frutti. Un giorno il mio braccio caricato a molla disegnò una palomba incredibile che terminò la sua corsa sulla vetrata di ingresso del caseggiato adiacente al campo. Il vetro venne giù e fuggì precipitosamente a casa con i miei amici dietro. Non uscì per due giorni, mia madre si insospettì e poco dopo il colpevole della malefatta venne individuato nel sottoscritto.

6. Ad un passo dalla gloria


L’estate del 1984 fu particolarmente noiosa. La Juve mantenne le promesse dell’estate precedente, e grazie alla vittoria dello scudetto (condita alla vittoria della Coppa delle Coppe a Basilea contro il Porto) si presentò carica per la conquista della Coppa dei Campioni. Ma fu un’estate senza calcio da tifoso. La nazionale italiana non si qualificò per la fase finale degli europei in Francia; Bearzot decise di dar fiducia al gruppo di Spagna ‘82 ma le motivazioni a livello di maglia azzurra furono scarse. La pancia piena di un titolo mondiale conquistato fu evidente, nel girone di qualificazione perdemmo due volte con la Svezia di Strömberg, e in trasferta con Romania e Cecoslovacchia. Un disastro. Non mi rimase che simpatizzare per la Francia di Platini. In quei frangenti la mia venerazione per il 10 francese era ai massimi livelli. Ebbi in regalo da mio padre uno specchio con foto di “le Roi” ritratto (lo conservo con cura tutt’ora). Erano gadget prodotti soprattutto con immagini di rockstar musicali come Madonna, Bruce Springsteen o Prince.  Io avevo Platini.

Alla fase finale di Francia 84 giunsero oltre ai padroni di casa, Danimarca, Romania, Spagna, Portogallo, Germania Ovest, Belgio e Jugoslavia. La partita più bella fu senza ombra di dubbio la semifinale Francia-Portogallo disputata al Vélodrome di Marsiglia, 3-2 dopo i tempi supplementari decisa da Platini al 119’. Partita ricca di occasioni da rete e giocate spettacolari.  La finale Francia-Spagna venne decisa da una paperona di Arconada su punizione di Michel e rete in chiusura di Bellone. Platini era in quel momento, senza dubbio il miglior giocatore europeo e vinse poi il suo secondo pallone d’oro consecutivo (che divennero tre nel 1985).

La roulotte di famiglia invece, venne portata in Toscana e precisamente a Follonica, camping Baia dei Gabbiani. Non mi divertì particolarmente, mi mancavano gli amici dell’estate precedente e non legai quasi con nessuno. Gli italiani in spiaggia ascoltavano il ribelle Vasco Rossi che con l’album  “Va bene, va bene così” stava scalando le classifiche musicali e più che di calcio, si appassionarono ad “Azzurra”, la barca che voleva competere nella Coppa America di vela.

Il calciomercato invece regalò grosse emozioni, tre campionissimi stranieri vennero in Italia: i brasiliani Junior e Socrates rispettivamente a Torino e Fiorentina mentre il Napoli riuscì dopo un’estenuante trattativa ad assicurarsi l’argentino Diego Armando Maradona dal Barcellona. A regalarci una serie A da favola ci pensarono anche l’Atalanta con l’acquisto dello svedese Strömberg, il Milan con gli inglesi Wilkins e Hateley, l’Inter con il panzer Rummenigge, la Sampdoria con lo scozzese Souness e il Verona con il tedesco Briegel. La Juve fece solo piccoli ritocchi al suo organico senza grossi colpi sul mercato. Lasciò la squadra una bandiera come Claudio “Gheddafi” Gentile, appellativo affibbiategli per la sua nascita libica anche se da genitori siciliani di Noto. Andò alla Fiorentina da svincolato mentre dall’Avellino arrivò il suo sostituto naturale: il baffuto Luciano Favero, terzino non di grossa qualità tecnica ma estremamente efficace. In attacco lasciò Domenico Penzo che passò al Napoli, al suo posto Massimo Briaschi dal Genoa, attaccante piccolo e scattante dalla buonissima tecnica individuale.

A scuola fu tempo di cambiamenti, già da un anno avevamo ottenuto un maestro fisso, dopo un periodo di maestre provvisorie e supplenti senza ruolo definitivo, che rispondeva al nome di Rodolfo Persico. Un maestro severo ma molto umano, fece subito presa sulla classe non assegnando mai un compito da fare a casa. “I bambini devono imparare a scuola, nel pomeriggio devono svagarsi” era il suo mantra…noi esultavamo come dopo un gol di Platini su punizione nel sette. In classe eravamo in pochi, tredici,  divisi quasi equamente tra maschi e femmine. Io e Renato bianconeri, Massimo e Ivano del Milan, Diego nerazzurro e Michele dell’Hellas Verona (per via delle origini scaligere dei suoi genitori). Le femmine non vennero ancora contemplate nel mio universo.  Il calcio fu fra noi motivo di divisione e risse dialettiche, ci compattavamo solo nell’intervallo quando lasciavamo da parte le nostre fedi calcistiche, e ci scontravamo verbalmente e corporalmente con le altri classi, in accese sfide a calcio o di supremazia territoriale, nei corridoi della vecchia scuola di Borgo San Pietro. “Un giorno di scuola mi durava una vita e il mio mondo finiva un po’ là” come canteranno in seguito i Negrita in una loro bellissima canzone.

La Juventus intanto in campionato non ottenne nulla di esaltante, la stagione terminò con un anonimo sesto posto finale. Lo scudetto andò al Verona di Osvaldo Bagnoli forse l’ultima vera vittoria romantica di una squadra di calcio in Italia.

Andò decisamente meglio in Europa dove già a Gennaio alzammo il primo trofeo: la Supercoppa Europea. La disputa di quell’edizione della competizione risultò piuttosto lunga e travagliata. Dapprima, a causa dei problemi nel trovare all'interno del calendario internazionale delle date utili al suo svolgimento, la sfida venne posticipata all'inizio del 1985, giocata in casa della formazione piemontese e, per la prima volta nella storia della competizione, in gara unica. Ulteriori disagi sorsero il giorno scelto per il match, il 16 gennaio 1985, quando la cosiddetta “nevicata del secolo” ricoprì l'intero Nord Italia sotto una grande coltre di neve, che a Torino raggiunse i trenta centimetri.  Boniperti fece spazzare le vie d'accesso allo stadio Comunale e liberare dal ghiaccio la pista dell'aeroporto di Caselle, per rendere possibile l'atterraggio del volo della squadra inglese del Liverpool, che rimase in dubbio fino all'ultimo. Con l'aiuto di un centinaio di volontari arruolati come spalaneve, riuscì inoltre a rendere agibile il campo del Comunale in tempo per il fischio d'inizio.

Agli ordini di Giovanni Trapattoni scesero in campo Luciano Bodini in porta, Favero e Cabrini terzini, Brio stopper, Scirea libero, Bonini e Tardelli centrocampisti, Briaschi ala destra, Boniek ala sinistra, Paolo Rossi centravanti e Michael Platini in cabina di regia. In panchina Stefano Tacconi, Nicola Caricola, Cesare Prandelli, Bruno Limido e Beniamino Vignola. Nel Liverpool, l’attaccante gallese Ian Rush rappresentava il vero pericolo sotto la porta di Bodini. Fu la notte magica di Boniek, il “bello di notte”, come lo definì sapientemente l’avvocato Gianni Agnelli. Il pallone, rosso per l’occasione, si infilò due volte alle spalle di Grobbelaar sotto i colpi deliziosi del polacco: prima un sinistro in diagonale dopo tocco di Briaschi e poi sul finire del match, con una deviazione volante a centro area di mancino sempre su assist dello scatenato Briaschi. Scirea e tutti i giocatori della Juve ritirarono la targa della Supercoppa Europea vestiti di rosso, dopo lo scambio di maglie con gli avversari, la Juventus fu la prima squadra italiana ad assicurarsi questo trofeo.

 Anche in Coppa dei Campioni il cammino fu esaltante. Dopo aver eliminato i finlandesi dell’Ilves e gli svizzeri del Grasshoppers senza particolari problemi, l’urna dei sorteggi nei quarti ci mise di fronte ai campioni di Cecoslovacchia dello Sparta Praga, cliente assai insidioso. Il 6 Marzo a Torino si giocò l’andata, su un campo al limite della praticabilità per le abbondanti piogge. Fu una partita maschia, fango e tacchetti affilati, gol di Tardelli in apertura (un altro giocatore dai gol pesanti in Europa), raddoppio di testa di Paolo Rossi e 3-0 di Briaschi, quella sera migliore in campo per distacco. Nel ritorno la Juve giocò una partita senza correre grossi rischi e la sconfitta per 1-0 su rigore ci garantì comunque la semifinale dove trovammo i francesi del Bordeaux, uno squadrone con 4 campioni d’Europa della Francia in campo: Giresse, Tigana, Lacombe e Battiston. La squadra girondina incusse timore e si pensò potesse minare qualche certezza al connazionale Platini, più che altro per la conoscenza di Michel da parte dei sui compagni di nazionale. Ma il campo disse ben altro e la Juve nell’andata casalinga sfoderò la più bella partita di sempre in campo europeo. Un meraviglioso 3-0 con partita dominata e i francesi annichiliti.

Platini cancellò i timori della vigilia con una prestazione maestosa coronata da due assist al bacio per i gol di Boniek e Briaschi, e siglando la rete finale con un tiro al volo dal dischetto del rigore su assist favoloso di Boniek.

La partita di ritorno fu invece un vero e proprio calvario. I francesi quasi umiliati a Torino tirarono fuori una prestazione maiuscola.  Il tedesco Dieter Müller porto in vantaggio i transalpini con un bel gol da attaccante di razza e il difensore Battiston nel secondo tempo siglò il 2-0 con una staffilata notevole da fuori area. Ci pensò Luciano Bodini con un paio di patate strepitose a regalarci la finale. Ringrazieremo per sempre Bodini per la sua professionalità ed educazione, riserva di Zoff prima e Tacconi dopo, scrisse la sua storia juventina in modo inequivocabile quando venne chiamato in causa. Quella sera il divano di casa tremò violentemente per il terrore di uscire dalla coppa sotto i colpi portati dai francesi. Tutto però sembrò svanire al pensiero della conquista della finale, ancora una volta ci trovammo ad un passo dalla gloria.

 

  A mio nonno, mio papà e mio zio     “lo abbiamo comprato per un tozzo di pane, lui ci ha messo sopra del fois gras” Gianni Agnelli a...